"Sorsi di assenze"
La mostra, da poco conclusa, comprendeva una serie di opere a loro volta ispirate da una frase tratta da un racconto di Erri De Luca:
"Per uno che beve di sera i sorsi sono baci a tutte le donne assenti e gli occhi che si chiudono un inchino." ( Il contrario di uno, Feltrinelli 2003)
Gli autori dei quattro racconti appartengono all'associazione culturale del Cavedio di Varese sono:
"Per uno che beve di sera i sorsi sono baci a tutte le donne assenti e gli occhi che si chiudono un inchino"
L’insegna sulla porta del bar sorride, dietro il bancone un ragazzo asciuga tazzine, nella trama larga dello straccio chiude noia e fatica.
Un uomo solo, poggiato sui gomiti, seduto accanto alla finestra, osserva la strada avvolta nella nebbia, nella penombra della sera imminente.
Una goccia di vino scuro, denso come il sangue, cade sul piano del tavolo. L’uomo con l’unghia ne fa una riga, disegna, tratteggia un profilo di donna.
«Io so chi sei». Così le aveva detto la prima volta.
«Ti vedo ogni giorno dalla finestra della mia casa, ti guardo rientrare, salire le scale e mi scaldo alla luce della tua stanza. Vivo solo quando tu sei lì, vivo per te».
Lei aveva scosso la testa, i capelli a sfiorarle le spalle e se n’era andata.
Il vetro del bicchiere riflette la sua emozione. L’emozione di quella sera, quando l’aveva abbracciata pregandola, supplicandola di amarlo.
Lei aveva gridato, lo aveva insultato, respinto.
Un sorso e il calice si svuota ancora un po’, come svuotata è la sua anima, persa negli occhi di lei, nel suo ultimo sguardo mentre le serrava la gola con mani pesanti, violente, che lui avrebbe voluto mani d’amante per accarezzarla.
L’uomo spinge le dita, cancella la goccia, il suo amore, se stesso.
La polizia arriverà presto, l’ha chiamata lui.
Prende il bicchiere, lo solleva e brinda al niente intorno a sé.
Un ultimo sorso e resta il vuoto.
«Ho ucciso una donna» la voce all’altro capo del filo aveva chiesto di più.
Una donna, la sua donna.
Lacrime calde pizzicano le palpebre come spilli.
Una donna che non avrebbe avuto mai.
Di Oscar Taufer
Attese il sipario e si dileguò dietro le quinte. Ignorò gli attori, i tecnici, le pacche sulle spalle, e si fece largo tra le chiacchiere e i costumi che affollavano il corridoio. In camerino si lasciò cadere sulla sedia, davanti allo specchio.
Lei era lì, in piedi, accanto allo scrittoio, nel vestito rosso che le aveva regalato. Lo fissava immobile, severa, come già aveva fatto per tutta la sera. Non disse una parola.
Si cambiò in fretta, uscì dal retro e guadagnò la strada. Vagò senza direzione, la testa impregnata di ricordi, i pugni stretti nelle tasche, le spalle incurvate sotto il peso del tormento. Si perse nei vicoli, senza badare alla pioggia, al buio, stordito dai pensieri. Solo le gambe sembravano lucide, in cerca di una via d'uscita, una fuga. Lo avrebbero portato ovunque purché lei sparisse. Invece, anche senza voltarsi, la sapeva lì. Ne sentiva lo sguardo conficcato nella schiena.
L'aveva incontrata anni prima, in una notte di mare e primavera. All'inizio si era lasciato soltanto sfiorare. Selvatico. Duro. Cauto. Col tempo aveva ceduto ai modi, alle carezze. Si era ammorbidito, abbandonato a lei.
La fortuna gli aveva dato fama, denaro, amore. Troppo, e tutto insieme. Presto presentò il conto. Il sogno prese a scricchiolare, e lui non se ne accorse. Quando notò la crepa, l'aveva già perduta.
Da allora i giorni avevano un sapore inutile. Incalzavano identici, battute di un copione infelice che non cambiava mai. Affamato di risposte, trovava solo ipotesi e si rodeva nel dubbio. Il tempo non aveva riempito il vuoto, né attenuato il dolore della perdita. La distanza non aveva placato la disperazione.
Nel riflesso di una vetrina riconobbe il nome dell'albergo. Passi inconsapevoli l'avevano riportato lì. In camera, la luce del lampione filtrava dalle tende socchiuse. Prese la bottiglia dalla borsa, la posò sul comodino e sprofondò nella poltrona accanto al letto. Versò nel calice la sua dose d'oblio. Osservò il liquido attraverso il cristallo. Non distingueva il colore, ma lo sapeva verde, come gli occhi da cui fuggiva. Il primo sorso bruciò nello stomaco, dissipò l'angoscia e preparò al torpore. Quelli a seguire l'avrebbero aiutato a dimenticare.
OSCAR TAUFER
OGNI SORSO È STATO UN BACIO RICORDATO
Di Sergio Cova
La notte è appena iniziata in questo angolo d'Europa. Il vento soffia e fa tremare i vetri: aspetto l'arrivo del temporale a spazzare via il caldo soffocante del giorno.
Sul tavolino ho quello che mi serve: una bottiglia per affrontare i ricordi e un foglio su cui imprigionarli. Saranno loro i miei compagni questa sera.
Salute e te, Zanetta piccola grande donna assente della mia vita. Di nastri e corpetti riempivi i bauli che ti seguivano su ogni palco, in ogni teatro, mentre io ti aspettavo invano. Troppo presa dall’Arte e dal bisogno di apparire, vedova bellissima e madre assente. Mi manchi, oggi come allora.
Addio MM e CC, entrambe con il destino già scritto. Minute e devote, dai capelli rossi sotto al velo, dalle labbra morbide, dalla gelosia che non imputridiva i vostri cuori.
La notte il peccato veniva a bussare alla porta del monastero, nascosto dietro la mia maschera e sotto il mio mantello. Voi mi accoglievate e l'alba ci sorprendeva nudi, tra baci sussurrati e respiri profondi. Ogni volta giuravamo di smetterla, ogni volta era così bello ricominciare. Ci ha diviso il Tribunale dell’Inquisizione e di voi non ho saputo più nulla.
Gli altri ospiti del castello urlano là in fondo. Bevono e ridono. Ridono di me, ne sono sicuro. La loro ignoranza è vasta. Si atteggiano da filosofi e non sono altro che bestie boeme. Questa sera non cado nelle provocazioni e li lascio ai loro schiamazzi.
Mi verso ancora da bere e continuo la mia lettera.
Ciao Henriette, misteriosa compagna di viaggio e amante unica, a cui ho dato in pegno il mio cuore. Chissà se i miei anni sarebbero stati più dolci al tuo fianco. Il rimpianto non mi abbandona e di te mi rimane il ricordo di quella frase, incisa sul vetro di una finestra sulla strada per Parigi. “Dimenticherai anche Henriette”. Sbagliavi dolce amore. Ti tengo ancora qui con me.
Salute povera Marchesa d'Ufré. A te devo delle scuse per gli inganni, i raggiri e i denari che ti ho rubato. Cercavi l'eterna giovinezza e l'immortalità e hai trovato me, falso mago e esperto dell'occulto. Non vado fiero di ciò che ho fatto, ma ero giovane e disperato.
Addio anche a te, maledetta Charpillon che hai offeso il mio amore con il più vile dei sentimenti: l’indifferenza. Per te mi sono spinto sull’orlo di quel burrone che è il suicidio. Per te mi sono risollevato e anche adesso trovo il coraggio per pensarti.
Fuori la foresta è una macchia scura e minacciosa. Come il mio futuro.
I fantasmi mi fanno compagnia, con loro la bottiglia ha visto la fine. Ogni sorso è stato un bacio ricordato, ogni battito di ciglia un inchino a tutte voi, donne della mia vita. A coloro che sono apparse per restare e per chi è fuggita via con la mia promessa di affetto eterno.
Anche a te, ultimo amore impaziente. Ti vedo dietro la porta, ti riconosco. Altre volte ci siamo incontrati e io non ho mai avuto il coraggio di corteggiarti. Sono sempre fuggito da te. Ora è arrivato il momento di restare insieme per sempre. Ti chiedo solo il tempo di concludere la mia lettera e ti seguirò ovunque andrai.
Dux, 4 giugno 1798
Giacomo Casanova
SORSI DI ASSENZE
Di Eliana Bianchi
È la sera del whisky.
Due dita e due soldi di whisky, in un bicchiere di carta, una volta la settimana.
L’infermiera sta bene attenta a non versarmene di più.
Ha gambe belle, mi pare. Di una bellezza che mi faccio bastare.
La televisione, appesa al soffitto, raglia ad alto volume notizie dalla vita, che non ci riguardano.
Nessuno di noi, vecchi stravaccati sulle nostre poltrone, occhi nel vuoto, ha forze sufficienti a vivere il presente. Brancoliamo nel passato, grondiamo di ricordi.
La memoria, feroce, ci restituisce volti e corpi che credevamo scomparsi.
Ho amato molte donne, ma nessuna abbastanza.
Nessuna come te.
Al metro del confronto scoprivo sempre, in ognuna, una mancanza.
Un pò meno della grazia che avevi tu, un pò meno del tuo amore, della tua pazienza, della tua forza.
Nulla della tua essenza.
Quella che ho costruito con minuzia, accanto alla mia, ogni giorno, da quando so di respirare.
Ti ho persa quando sono nato.
Non ti ho ritrovata mai, negli occhi di nessuna, in nessun abbraccio.
Ora non so più camminare, e piscio in un pannolone come un bambino. Mani estranee mi accudiscono. Come allora.
Sono stanco.
Avrei voluto mostrarti la mia vita, i miei sforzi e le mie vittorie.
Sarei stato un uomo diverso, meno inquieto e meno solo.
Stasera vengo a parlarti. Vengo a dirti che il tempo non mi ha guarito dalla tua assenza.
Ti consegno i miei pianti, le carezze mancate, la fatica di non averti avuta.
Restituisco il dolore, spengo la rabbia, cedo il respiro.
Per la prima volta pronuncio il tuo nome. Mamma.
E chiudo gli occhi.
Eliana Bianchi
Le altre opere della serie "sorsi di assenze" (clicca qui)
La mostra alla tana delle costruzioni (clicca qui)